Si tratta di un movimento storico infinito
a cura di Giorgia Antonini e Giulia Ferlito

La controcultura è tutto ciò che – in un dato tempo e in un dato luogo – si oppone al sistema dominante. È difficile definire cosa sia e cosa non sia controcultura in assoluto. Tutto può esserlo e tutto non lo è. Dipende dalle angolazioni, dai punti di vista e dalle letture che diamo ai processi culturali, dalle definizioni e dagli impatti che hanno. Per me è controcultura tutto ciò che è dirompente, che stravolge gli schemi, che cambia le rotte, che definisce nuovi paradigmi. Caravaggio è controcultura rispetto al suo tempo. È il simbolo a mio avviso della forza dirompente che il pensiero innovativo può avere sulla società e sull’arte e la cultura che una società produce.
Oggi risulta difficile definirlo. A volte troviamo elementi di controcultura anche nel sistema. È possibile trovare questa forza innovatrice anche laddove meno ce l’aspetteremmo. Ma bisogna sempre essere attenti al qui e al dove: ciò che oggi è controcultura a Teheran o a Hong Kong non è detto lo sia a Milano o a Zurigo. In ogni caso, perché si possa parlare di controcultura è necessario che ci sia anche un’idea di mondo e di società non conforme all’idea dominante.
Le tracce come dicevo le troviamo in tutto ciò che ci circonda. La controcultura fa parte dei movimenti culturali di azione-reazione-controreazione. È un andamento ciclico che permette di rompere le regole e di affermarne di nuove. Nella pubblicità, nell’arte, nella musica, nella visual art. In ogni forma di espressione contemporanea si possono trovare semi di controcultura.
Quando abbiamo aperto il Triennale Design Museum nel 2007 abbiamo deciso che sarebbe stato un museo diverso. L’idea maturò dall’analisi delle realtà museali dedicate al design in ambito internazionale. Ho capito che un museo che non presenta opere d’arte “canoniche”, ma artefatti e progetti il cui valore è dato dalla storicizzazione dell’oggetto, dalla sua evoluzione tecnica, dalla sua capacità di essere un progetto insieme funzionale ed estetico, andava trattato in modo innovativo, diverso, unico. Non volevo che fosse una pura sequenza di oggetti. Non volevo che il museo fosse visitato una sola volta nella vita. Non volevo un unico punto di vista. Non volevo una carrellata di icone. Volevo bensì un museo emozionale, un museo che raccontasse diversi aspetti della storia del design e della storia del nostro Paese. Che ponesse quesiti e che lanciasse nuovi percorsi. Che raccontasse tante storie cercando di comporre una nuova storia del design italiano, ma al contempo che tracciasse nuove interpretazioni storiografiche. Dalla prima edizione, allestita da Italo Rota con contributi di registi italiani e stranieri – da Greenaway a Olmi e Martone per citarne alcuni – ho costruito racconti nati non solo dal mondo del design ma anche da discipline differenti.
Mi piace pensare che sarebbe stata accolta con entusiasmo da alcuni e criticata ferocemente da altri. Mi piace pensare che avrebbe creato dibattito, fazioni, dispute.
Nel campo del design penso che possano essere ricondotti all’idea di controcultura tutti quei movimenti che dopo il 1968, sull’onda lunga delle lotte studentesche e sociali, diedero vita a pratiche progettuali che scardinavano le convenzioni e le gerarchie dominanti. Penso ad esempio al Radical design, e alla sua volontà di opporsi al dominio del design razionalista e funzionalista per far irrompere nella cultura del progetto anche la dimensione emozionale. È un filone di antagonismo culturale che poi sarà ripreso e rilanciato da gruppi come Alchimia e Memphis, uniti dal rifiuto dei modelli dominanti e quindi connotati da una genesi che li porta a essere quasi necessariamente “innovativi”. Il fatto che alcuni esponenti di questi movimenti in seguito si istituzionalizzino, si conformino o si integrino al sistema è un destino che i designer condividono con gli esponenti di molte avanguardie 900esche. Come diceva un tale: “si nasce incendiari e si finisce pompieri…”. Credo comunque che sia un bisogno intrinseco del sistema – se è un sistema sano – attingere a ciò che è nato “al di fuori” e magari anche “contro” per rinnovarsi. Il sistema che non lo fa, che non lo sa o non lo vuole fare, è destinato a deperire e a diventare obsoleto.
Credo vadano cercati negli interstizi. Nelle crepe del sistema. Nelle enclave che lavorano nell’ottica dell’autoproduzione e che rifiutano le pur legittime esigenze del mercato. Ma sono esperienze di nicchia, talora sono testimonianze individuali, non ci sono movimenti, e non c’è neppure una rete di esperienze antagoniste come poteva esserci negli anni ’70. Oggi mi pare ci sia in giro più voglia di integrarsi al sistema che di combatterlo o cambiarlo…
Un museo nato in una istituzione è di per sé espressione del sistema. Ma una formula che cerca di scardinare gli assiomi museologici e museografici dominanti è anche espressione di Controcultura. È questa natura ibrida – penso – che faceva la forza e l’originalità del museo mutante: il suo essere al contempo dentro e fuori, istituzionale e controculturale.
Studiare i maestri.
Essere consapevoli della storia. Conoscere non solo la storia dell’arte, ma anche la grafica, la visual art, la pubblicità. E poi provare a produrre un pensiero originale.
La Triennale del ’68. Il tema affrontato dalla XIV Triennale era Il Grande Numero: in arte, architettura, urbanistica, artigianato, produzione industriale. Un tema anticipatorio e precursore di emergenze ancora oggi attuali. Ma nessuno vide quella seppur importante Esposizione Internazionale. Gli studenti occuparono l’istituzione. Ne impedirono l’apertura. Ne fecero terreno di conflitto con il sistema.
La controcultura non muore mai. Il meccanismo di azione e reazione porta al progresso. Ogni movimento rivoluzionario ha la sua reazione. Ogni conservatorismo porta a una rottura e successiva restaurazione. Si tratta di un movimento storico infinito.