La perenne dialettica tra controcultura e mainstream
a cura di Nicole Albanini e Lisa Magnoli

Sinceramente ho poca confidenza con questo termine. Anche dal punto di vista della teoria sociologica, trovo più idonei concetti come “protesta” o “movimento” per interpretare fenomeni di rilevanza sociale. Questo anche perché il termine controcultura può favorire l’equivoco che i movimenti controculturali possano essere qualcosa di esterno alla società, mentre è chiaro che se sono “sociali” essi fanno parte della stessa società contro cui protestano.
Dal punto di vista semantico, il termine controcultura riconduce a tutte quelle esperienze di protesta che hanno avuto origine negli anni Sessanta e Settanta. In quegli anni l’Occidente ha vissuto una vera e propria rivoluzione culturale animata, in particolare, dall’insofferenza e dalla ribellione giovanile che ha trovato forma in una aspirazione collettiva e condivisa. I giovani passarono dal silenzio all’attivismo e le università diventarono luogo dove si andava a sviluppare una cultura del dissenso e della protesta. In questi anni i movimenti di protesta hanno rappresentato le idiosincrasie della modernità avanzata, cioè i punti di estrema sensibilità in cui la società reagisce a se stessa, ai suoi effetti e ai suoi problemi più cruciali. Si svilupparono tensioni diffuse rispetto al riconoscimento dei diritti civili, all’emancipazione sessuale, ai diritti delle donne, al dissenso pacifista, consumista e ambientalista. La musica e l’arte in generale sono state il medium attraverso cui il movimento controculturale ha comunicato i propri messaggi e le proprie istanze alla società a livello planetario. Molte di queste istanze sono diventate oggi parte della semantica comune e quindi patrimonio collettivo, sebbene non se conosca sempre l’origine.
La disponibilità alla protesta sembra ancora godere di una notevole vitalità sia per la disponibilità di nuovi temi sia per l’introduzione di punti di vista nuovi su vecchi temi. Quest’anno abbiamo visto la popolazione scendere in piazza in numerosi Paesi, per decisioni a carattere prevalentemente nazionale che vedono il coinvolgimento di specifici strati della cittadinanza.
I gilet gialli hanno fatto di Parigi il teatro di una guerriglia urbana per protestare contro le condizioni economiche e sociali della classe medio – bassa delle periferie e delle zone rurali, con richieste che vanno dall’aumento del salario minimo e delle pensioni a maggiori servizi. A Hong Kong migliaia di persone sono scese in piazza contro una proposta di legge che faciliterebbe l’estradizione in Cina. Le proteste hanno poi preso la forma di una rivendicazione più ampia di democrazia e indipendenza da Pechino. In Iraq il movimento di protesta è partito da Baghdad e si è espanso in quasi tutto il Sud del Paese, a maggioranza sciita, grazie agli appelli lanciati sui social network. Si chiede lavoro per i giovani e il licenziamento dei leader “corrotti”. Ci sono poi proteste caratterizzate da una forma di coinvolgimento diffuso e che riguardano una buona parte dell’umanità. Il movimento #MeToo ha organizzato manifestazioni e cortei in diverse città del mondo per denunciare le molestie contro le donne e dire basta a ogni forma di sessismo e abuso di potere maschile. Lo scorso settembre abbiamo assistito alla più grande mobilitazione sui cambiamenti climatici avvenuta nella storia. Oltre 7 milioni di persone, soprattutto ragazze e ragazzi giovanissimi, sono scesi nelle strade di Giacarta, New York, Karachi, Milano, Amman, Berlino, Kampala, Istanbul, Québec, Guadalajara, Asunción, Berna. Il movimento Fridays for Future, grazie a internet, ha raggiunto le grandi città come i piccoli villaggi, unendo milioni di persone per chiedere politiche immediate che mettano un freno al cambiamento climatico, pongano fine all’era dei combustibili fossili e alla devastazione della foresta pluviale amazzonica e indonesiana.
Sarebbe impensabile parlare oggi di amore, di sesso, di contestazione, di ecologia, di diritti civili, di diritti di genere, prescindendo dal patrimonio culturale prodotto in quegli anni, assimilato sino a perdere la specificità che lo etichettava come cultura antagonista. Piercing e tatuaggi hanno perso il loro senso originario per diventare ornamenti della vita quotidiana che attraversano le generazioni e le classi sociali. La street art nata come pratica illecita e contro le istituzioni oggi vede alcune sue opere assorbite dal mercato dell’arte, dai musei e dal gusto mainstream. L’abolizione del servizio militare obbligatorio, la legalizzazione della marijuana, la diffusione dell’ambientalismo, la difesa dei diritti LGBT sono pratiche acquisite sebbene in maniera eterogenea e variegata nei diversi Paesi del nostro pianeta. Il vegetarianesimo, l’agopuntura, lo yoga sono tutte attività ormai diffuse e adattate alle esigenze del mercato occidentale. Il sesso, ampiamente desacralizzato, viene rappresentato senza censure e lo si pratica più agevolmente anche grazie alla diffusione degli anticoncezionali e all’invenzione di app come Tinder, Meetic e Academic Singles. Un’ultima traccia ancora, nonostante le polemiche e le visioni contrapposte, nel 2016 Bob Dylan ha vinto il premio Nobel per la letteratura.
Difficile per un “non designer” dare dei suggerimenti che non risultino impertinenti. Ne azzarderei comunque uno, quello di coltivare la propria consapevolezza culturale, perché anche la comunicazione visiva è anzitutto un fatto sociale della vita quotidiana dove clienti, utenti,
progettisti e progetti sono sempre calati in un flusso culturale, economico, politico e sociale che ha un tempo e uno spazio delimitati. In altre parole, non limitarsi al senso comune, ma accogliere, analizzare e comprendere i mutamenti con un’apertura al nuovo e alla costruzione di spiegazioni e significati alternativi. Concluderei invece con un augurio, quello di riuscire a partecipare a progetti, tanti, che abbiano una valenza etico – sociale nel rispetto dell’ambiente e del prossimo.
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Come già detto, la controcultura degli anni Sessanta e Settanta è stata ampiamente normalizzata e assimilata dalle generazioni che si sono avvicendate. Eppure nuove controculture sorgono e continuano ad alimentare la perenne dialettica tra controcultura e mainstream. Non credo dunque sia possibile parlare di morte della controcultura. Tuttavia in una società liquida, interconnessa e delocalizzata forse è proprio la dialettica tra cultura dominante e controcultura a risultare
attenuata. Da una parte è sempre più complicato circoscrivere oggi quale sia davvero la cultura dominante, dall’altra le controculture si configurano sempre più come fluide, mutevoli, provvisorie e omologabili.