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Interviste

Interviste > Gilberto Corretti

Non stancatevi mai di cercare.

a cura di Nadine Curanz e Olena Corzetto

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Eravamo circondati da un mondo che ritenevamo obsoleto e chiedevamo rinnovamento, soprattutto giustizia sociale. Nacquero così i primi movimenti studenteschi che, almeno a Firenze, erano anche di natura cattolica (vedi “Lettere ad una professoressa” di Don Milani 1967). I primi movimenti studenteschi iniziarono nel 1963, a Lettere e Architettura, e non erano violenti ma chiedevano soprattutto l’adeguamento dell’università al mondo contemporaneo e l’accettazione del lavoro di gruppo e di squadra. Non eravamo “contro” i professori ma lavoravamo per il superamento delle classi sociali nella vita e nel lavoro. Poi scoppiò il movimento del ’68, che ci sorprese e dal quale, la nostra generazione, fu totalmente estranea.

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È un insieme di fenomeni che mi è difficile definire e forse che in realtà non so definire lucidamente. Credo che purtroppo il mondo della pubblicità e del commercio, amplificati dai mezzi oggi disponibili, abbia complicato ed intrigato questo problema. Oggi è difficile, almeno per me, capire chi è contro e chi no. Penso che quando si fa cultura non si è mai contro ma si cerca di far capire, democraticamente, dove gli altri sbagliano. Non si può mai pensare di essere assolutamente nel giusto: questa non è cultura ma ideologia, religione, regime insomma.

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Le tracce sono molte e stanno spesso nelle cose comuni e ovvie, proprio quelle che fanno incazzare la gente. Non dimentichiamo che la parola “super”, da noi ampiamente utilizzata nel manifesto della Superarchitettura, era allora utilizzata per pubblicizzare ogni prodotto, dalla benzina al supermercato. Noi la utilizzammo non senza ironia.

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Forse si è parecchio esagerato a parlarne ed è diventato un vezzo, proprio da parte di quelli che ne sono stati più estranei. “Quando all’avanguardia siamo in troppi è l’ora di uscirne”, disse un giorno Andrea Branzi.

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Perché faceva vedere il mondo da un’altra prospettiva, non so se era la più giusta, ma la meno convenzionale.

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Soprattutto i progetti del periodo Archizoom. Qualcuno è meglio riuscito, altri meno, ma a tutti sono stati eseguiti seguendo le indicazioni che ho dichiarato prima. Poi, entrato nella realtà professionale, ho cercato di mantenere lo spirito iniziale, anche se era più difficile. Ci sono riuscito? A voi la risposta.

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Nacque come seduta per discoteche, allora molto in voga, era il periodo dei vari Piper, non dimenticando però l’esperienza di Gaudì a Barcellona (siamo stati sempre molto attenti alla storia) e la nostra insofferenza per il razionalismo, ormai diventato banale e obbligatoria consuetudine nell’architettura del tempo. Era in legno compensato inchiodato su un telaio di legno e verniciata a strisce. L’idea di farla tagliando un pezzo unico di poliuretano fu del nostro primo committente, il prof Cammilli della Poltronova. Come vedete le buone idee non si sa mai da dove vengano.

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È difficile aver visto tutto com’è difficile definire cos’è super. Sicuramente da qualche parte del mondo c’è qualcuno che fa controcultura anche oggi e sarà sempre così.

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Penso di sì. Ma sicuramente andrebbe demitizzato il tema.

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Non stancatevi mai di cercare, d’imparare e non fatevi prendere in giro dai falsi profeti o da chi pretende di aver capito tutto.

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Non saprei, mi vien voglia di dire che niente di quello che abbiamo intorno va sottovalutato. La controcultura sta anche nelle comuni azioni che facciamo ogni giorno.

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Forse la volontà di prevalere sul prossimo. Ma chi ha detto che sia stata uccisa?

Gilberto Corretti

Non stancatevi mai di cercare.

a cura di Nadine Curanz e Olena Corzetto

Cosa è stata la controcultura per lei?

Eravamo circondati da un mondo che ritenevamo obsoleto e chiedevamo rinnovamento, soprattutto giustizia sociale. Nacquero così i primi movimenti studenteschi che, almeno a Firenze, erano anche di natura cattolica (vedi “Lettere ad una professoressa” di Don Milani 1967). I primi movimenti studenteschi iniziarono nel 1963, a Lettere e Architettura, e non erano violenti ma chiedevano soprattutto l’adeguamento dell’università al mondo contemporaneo e l’accettazione del lavoro di gruppo e di squadra. Non eravamo “contro” i professori ma lavoravamo per il superamento delle classi sociali nella vita e nel lavoro. Poi scoppiò il movimento del ’68, che ci sorprese e dal quale, la nostra generazione, fu totalmente estranea.

E cosa è oggi?

È un insieme di fenomeni che mi è difficile definire e forse che in realtà non so definire lucidamente. Credo che purtroppo il mondo della pubblicità e del commercio, amplificati dai mezzi oggi disponibili, abbia complicato ed intrigato questo problema. Oggi è difficile, almeno per me, capire chi è contro e chi no. Penso che quando si fa cultura non si è mai contro ma si cerca di far capire, democraticamente, dove gli altri sbagliano. Non si può mai pensare di essere assolutamente nel giusto: questa non è cultura ma ideologia, religione, regime insomma.

Quali sono le tracce di quanto prodotto dalla controcultura e dove è possibile rintracciarla oggigiorno?

Le tracce sono molte e stanno spesso nelle cose comuni e ovvie, proprio quelle che fanno incazzare la gente. Non dimentichiamo che la parola “super”, da noi ampiamente utilizzata nel manifesto della Superarchitettura, era allora utilizzata per pubblicizzare ogni prodotto, dalla benzina al supermercato. Noi la utilizzammo non senza ironia.

Secondo lei che impatto ha avuto la controcultura nel mondo dell’architettura e del design?

Forse si è parecchio esagerato a parlarne ed è diventato un vezzo, proprio da parte di quelli che ne sono stati più estranei. “Quando all’avanguardia siamo in troppi è l’ora di uscirne”, disse un giorno Andrea Branzi.

Perché fu innovativo il design della Controcultura?

Perché faceva vedere il mondo da un’altra prospettiva, non so se era la più giusta, ma la meno convenzionale.

C’è un suo progetto che meglio interpreta questo fenomeno?

Soprattutto i progetti del periodo Archizoom. Qualcuno è meglio riuscito, altri meno, ma a tutti sono stati eseguiti seguendo le indicazioni che ho dichiarato prima. Poi, entrato nella realtà professionale, ho cercato di mantenere lo spirito iniziale, anche se era più difficile. Ci sono riuscito? A voi la risposta.

Ci racconta un aneddoto riguardo al periodo “super onda”?

Nacque come seduta per discoteche, allora molto in voga, era il periodo dei vari Piper, non dimenticando però l’esperienza di Gaudì a Barcellona (siamo stati sempre molto attenti alla storia) e la nostra insofferenza per il razionalismo, ormai diventato banale e obbligatoria consuetudine nell’architettura del tempo. Era in legno compensato inchiodato su un telaio di legno e verniciata a strisce. L’idea di farla tagliando un pezzo unico di poliuretano fu del nostro primo committente, il prof Cammilli della Poltronova. Come vedete le buone idee non si sa mai da dove vengano.

Oggi nel campo del design c’è qualcosa che si può definire “super” così come lo intendevate negli anni ’60 o siamo una società che ha visto tutto?

È difficile aver visto tutto com’è difficile definire cos’è super. Sicuramente da qualche parte del mondo c’è qualcuno che fa controcultura anche oggi e sarà sempre così.

Nel design odierno servirebbe un approccio di controcultura?

Penso di sì. Ma sicuramente andrebbe demitizzato il tema.

Un consiglio per noi giovani futuri designer della comunicazione visiva?

Non stancatevi mai di cercare, d’imparare e non fatevi prendere in giro dai falsi profeti o da chi pretende di aver capito tutto.

Può indicarci uno o più eventi significativi e imprescindibili della controcultura.

Non saprei, mi vien voglia di dire che niente di quello che abbiamo intorno va sottovalutato. La controcultura sta anche nelle comuni azioni che facciamo ogni giorno.

Chi ha ucciso la controcultura?

Forse la volontà di prevalere sul prossimo. Ma chi ha detto che sia stata uccisa?