Andare contro le regole dell'Arte
a cura di Gaia Moretti

È piuttosto complesso perché è cambiata molto anche la società. Conosciamo molto di più il fenomeno dei graffiti e come è nato, dalla fine anni ‘60. Di base, ogni movimento che nasce dal basso come controculturale se ha poi un impatto forte, viene inevitabilmente assorbito dalla società. Ciò che ha cambiato tutto è l’avvento di Internet, che ha modificato in modo radicale gli strumenti di diffusione, il pubblico e i metodi di ricezione di tutto questo: quello che prima ci metteva anni a diffondersi, adesso ci può mettere due settimane. Essendo il processo di diffusione più veloce, lo è a sua volta quello di assimilazione, come per esempio quello della controcultura da parte della cultura ufficiale. Tutta questa trasformazione è avvenuta anche nel campo dei graffiti perché internet ha ovviamente portato tutti i writers a livello mondiale a condividere il lavoro che fanno, alzando la posta in gioco e al contempo aumentando i rischi di farlo perché si è molto più tracciabili.
Sì, è una scelta che abbiamo fatto noi principalmente. All’inizio era una necessità poi però è diventata una scelta; sono tre maschere personali, quindi oltre che proteggere l’anonimato sono qualcosa che indossiamo nel momento in cui vogliamo cambiare personalità e avere una certa libertà espressiva più giustificata a volte.
Si, esatto. Sin dall’inizio abbiamo avuto l’occhio di riguardo a proteggere la nostra identità e nel minimizzare i rischi che correvamo. Però allo stesso tempo quello che all’inizio è stata una necessità per noi poi è diventato un elemento portante del nostro modo di agire e pensare. Nel nostro lavoro noi comunque elaboriamo in modo ironico tanti cliché del mondo dei graffiti, come può esserlo anche quello della maschera. Noi abbiamo iniziato a usarla in modo più scanzonato, un po’ prendendo in giro e poi da questo approccio sono scaturiti questi tre alter–ego con le maschere che rielaborano a modo loro tanti stilemi del mondo dei graffiti.
Quello perché chiaramente i nostri mentori, che all’epoca era tutta la scuola comasca, cioè Ema Jons, Tiff, Black One, Covari, Danilo Vadis, ci avevano illuminato sul fatto che usare un’asta e un rullo ti permette di realizzare qualcosa di più imponente rispetto agli altri: è meno rischioso che la coprano, sta più in alto di altre ed è semplicemente più possente. Noi inoltre abbiamo delle formazioni da pittori perciò siamo forse più legati al mezzo del pennello piuttosto che alla bomboletta spray, che comunque usiamo parecchio. All’inizio abbiamo cominciato a fare graffiti come tutti a 14/15 anni, però era un periodo in cui nella provincia italiana i graffiti erano molto tecnici, dovevano essere precisi, puliti e non dovevi fare colature. Con gli anni quei requisiti si sono sdoganati, facendo emergere stili molto più selvaggi, molto più “sporchi”. Comunque già dopo un anno in cui tentavamo di fare graffiti non riuscendoci, abbiamo scoperto i lavori di alcuni comaschi provenienti dal giro punk di Como che hanno cominciato a dipingere con aste e rulli, in parallelo agli altri che lo stavano già facendo in Italia, come Blu e Run per esempio, ma mentre loro avevano uno stile più illustrativo, il gruppo punk comasco dipingeva in modo molto più pittorico, espressionista e primitivo. A noi quella roba ci ha fatto impazzire; abbiamo visto le loro cose, li abbiamo conosciuti e anche noi abbiamo iniziato con aste e rulli. Questo ci ha permesso di realizzare lavori illegali, non autorizzati, in pochissimo tempo ma coprendo superfici enormi, poi piano piano ci siamo riappropriati anche delle bombolette riusandole in modo più sporco e strano. Anche il nome Canemorto è parte di un rifiuto dei nomi delle crew classiche di graffiti, di quegli acronimi americani, ma voleva anche essere qualcosa dichiaratamente più ignorante e più creativo.
Eh ma è quello vogliono saperlo tutti. Questa è una buona spiegazione comunque.
Da un certo punto di vista sì. Quello è stato un momento in cui volevamo fare una sorta di dichiarazione stilistica e quindi l’idea era di andare a Lisbona per due mesi e dipingere da mattina a sera, per la strada, senza permesso. È stato fatto anche in un momento in cui tutto quello che veniva chiamato Street Art era diventato molto più istituzionale. C’erano festival e commissioni che selezionavano i progetti in base a quello che si poteva fare e cosa no. Ciò che veniva chiamato Street Art si era molto distaccato da quello che era invece l’attitudine aggressiva dei graffiti, di dipingere dove e come vuoi. Per noi è stato importante riportare il focus su quella attitudine con un’estetica nostra, più pittorica.
Sì sì, noi cercavamo di coinvolgere i passanti chiedendogli di insultarci. Per alcuni non c’è stato bisogno: erano incazzati perché stavamo facendo delle opere oscene, altri invece sono stati al gioco. Noi lavoriamo molto sul parallelismo tra realtà e finzione, dove ci sono questi tre personaggi palesemente fittizi, surreali, esasperati e teatrali che però le azioni che fanno, le realizzano per davvero. Tutto è basato su questo concetto che è diventato poi un elemento su cui abbiamo, e tuttora lavoriamo, tantissimo; creare un universo fittizio che però invade la realtà.
La cosa che ci è piaciuta sin da ragazzini, e che tuttora ci piace, è che, nel momento in cui intervieni nello spazio pubblico in maniera non autorizzata, immediatamente il tuo dipinto è posto sotto i riflettori. Mentre se tu realizzassi un quadro dovresti passare attraverso un processo di selezione, di accettazione del tuo lavoro lungo, noioso, basato su un sacco di fattori esterni, sociali e culturali. Quando noi dipingiamo una parete in autostrada in due ore, nell’arco di un mese raggiunge magari i 300mila visitatori; per avere un dipinto altrettanto visto in un spazio chiuso dovresti lavorarci tutta la vita. Realizzare un’opera non autorizzata, che non sia passata da alcun filtro sociale, ma che è sotto gli occhi di tutti, è l’obiettivo della cultura dei graffiti ed è quello che la rende pazzesca. In tutto questo subentra anche la voglia intrinseca di dipingere qualcosa di sempre più grosso e di occupare più superficie possibile. Dà una liberazione assurda fare un segno di due metri piuttosto che uno di due centimetri e inoltre c’è anche l’aspetto dell’imposizione all’altro, che è quasi una modalità fascista, ma tu per forza guardi quello che ho fatto io. Ovviamente fascista per dire, in questi termini noi non abbiamo mai avuto approcci politici. Però nel momento in cui nello spazio pubblico ti viene costantemente imposto di vedere cose regolate dalla società, come per esempio quello che devi comprare, perché dovresti sentirti in colpa quando invece io ti mostro un dipinto che non mostra nient’altro se non la sua stessa pittoricità? Non c’è nessun messaggio subliminale, nessuna richiesta, nessuno slogan politico, è solo pittura allo stato puro, inserita nello spazio pubblico.
Qualsiasi artista che non sia un figlio di papà, che voglia vivere di arte, deve per forza fare delle operazioni economiche come vendere degli oggetti. In Occidente non esistono artisti che non abbiano un ritorno economico. Noi stessi produciamo opere che non hanno un ritorno economico, tipo i muri illegali, ma poi naturalmente realizziamo cose vendibili. Non è una contraddizione. Come in tutti gli ambiti ci sono mode e mode. Ci sono Street Artist che diventano famosi con opere sui muri contenenti messaggi politici e poi appena raggiungono un po’ di notorietà iniziano a fare marchi a destra e a sinistra, pubblicità per qualsiasi tipo di azienda. Però anche i più radicali, tipo Blu, Banksy hanno fatto mostre, realizzato serigrafie per mantenersi. Dire “fare arte senza un ritorno” è un po’ romantico come concetto, ma non molto realistico. E poi più del 50% di quello che guadagni viene investito in altri progetti, che è anche un modo per continuare a fare quei progetti.
Nella nostra ottica quello che viene chiamato Street Art non lo reputiamo arte, ma decorazione, design o artigianato, non per sminuire queste discipline, ma perché spesso si pretende che sia arte quello che in realtà è decorazione di spazi pubblici su commissione, e questo è il grande limite della Street Art. Ora tutti quelli che hanno un minimo di sensibilità artistica e che sono stati categorizzati così, cercano di rispondere a quell’etichetta. A noi adesso non piace molto farci chiamare Street Artist, perché inevitabilmente è un concetto che viene collegato a una figura che realizza un’opera precisa, con l’estetica ammiccante, su una parete, su commissione, che viene poi sottoposto a una giuria, e così via. Non è più arte. Noi abbiamo pagato, sia in positivo sia in negativo, le conseguenze della scelta che abbiamo fatto sin dall’inizio, di dipingere in uno spazio pubblico con uno stille vicino all’evoluzione della pittura degli ultimi cento anni e quindi espressionista, selvaggio, lontana dall’idea del Bello standard. E questo, di conseguenza, ci ha sempre escluso dai giri dei festival di Street Art mondiale, perché ovviamente quando organizzi un festival e devi inserire opere in uno spazio pubblico, non vorresti mai che la gente non comprenda quelle opere, quindi alla fine si preferisce puntare sempre al ribasso e vengono selezionati artisti che hanno una particolare estetica decorativa, così che se anche mia zia passa pensa: guarda che bello! Questo ha avuto come conseguenza il crollo della ricerca artistica del mondo della Street Art e l’ha modificato in un fenomeno puramente decorativo.
Qualsiasi progetto che abbiamo fatto. Non ci è mai stato imposto nulla. Tutte le volte che ci è stato proposto un progetto che mettesse in discussione la nostra libertà artistica, vincolandoci, abbiamo rifiutato. Fino ad ora qualsiasi cosa abbiamo fatto è stata una decisione presa in totale libertà assoluta, dove i limiti sono più collegati ai materiali o a problemi tecnici o di tempo, ma mai sui contenuti.
Instagram.
È lo specchio di una pluralità di persone che puoi vedere solo dietro ad un oggetto. Ma forse non è neanche morta, è solo mutata; è cambiata la società, sono cambiati gli strumenti attraverso cui essa si dimostra, come i social ad esempio; però la controcultura è vivissima ed è ancora più connessa, a livello globale, più di quanto non lo fosse prima, e questo è il lato positivo di internet. Il lato negativo è che tutti i movimenti controculturali vengono assorbiti dalla società stessa e ciò avviene molto in fretta. a volte non è neanche un male. Quindi non è morta è solo mutata. Gli anni ‘60 d’altronde erano una realtà molto diversa.