La soluzione più semplice: chiudo internet
a cura di Nicole Albanini e Giorgia Antonini

Ho una vaga idea di cosa sia stata la controcultura negli anni passati, poiché non ho mai approfondito studi specifici sull’argomento. Parte della “mia” controcultura gira attorno al mondo dell’open source e del free software. Per questo motivo, sono stato influenzato principalmente da personaggi come il creatore di Linux, Linus Torvalds, piuttosto che l’ideatore dell’open software, Richard Stallman, oppure dal creatore di Debian, Ian Murdock. A volte non hanno nemmeno nome i personaggi perché alcuni progetti sono rimasti nell’anonimato. Questo perché, prima dell’avvento dei social network, l’anonimato online o l’uso di pseudonimi era frequentemente utilizzato. Il mio primo approccio, a circa quattordici anni, è stato tramite il Linux Day, grazie ad esso ho conosciuto il più famoso sistema operativo che è Ubuntu. Non sono una persona eccessivamente fiscale, quindi accetto che le persone possano non utilizzare Linux o utilizzare software a pagamento. Apprezzo molto, in Italia, molti centri sociali che hanno degli ottimi informatici che tentano di generare comunità online decentralizzate, ben localizzate sul territorio.
La controcultura, oggi, è una modalità di fare informazione che non segue i canoni dei media tradizionali. Quest’ultimi negli ultimi vent’anni hanno subito notevoli evoluzioni dovute all’avvento di Internet e dei social network che hanno permesso un’interrotta connessione con il mondo. Per i giornalisti è diventato più facile reperire foto e video senza più doversi spostare. Questo ha reso l’informazione molto più rapida e globale per tutti i media. Un giornale nazionale si occuperà non solo delle notizie nazionali, ma anche di quelle internazionali poiché, con una discreta facilità, avrà la possibilità di reperire le fonti in fretta. D’altra parte questo ha portato a rendere più deleterie le notizie. Esse hanno una durata molto breve, appena spariscono dall’homepage o dal dibattito social, tendono a non essere più trattate, aggiornate e approfondite dai giornali. La controcultura spesso non fa altro che informare le persone su un determinato argomento, in maniera continua e approfondita. Prendiamo la Libia, o la crisi in Siria per via dell’invasione turca. Non appena questi argomenti spariscono dai radar mainstream, se uno desidera informarsi deve cercare fonti attendibili, aggiornate con regolarità e costanza e Internet non è una garanzia. Penso che la controcultura sia quanto citato prima, con l’aggiunta di altre differenti sfaccettature. Un esempio in Italia che io assocerei alla controcultura è Mastodon, una comunità italiana molto attiva e vivace che porta avanti, con metodo conversazioni e topic che non per forza stanno sulla prima pagina di La Repubblica o del Corriere della Sera. Gran parte del tempo che perdo online è per capire se di quella fonte potrò fidarmi anche in futuro, senza dover tornare a ritroso a controllare. Purtroppo i giornali italiani online non aiutano perché spesso una notizia va letta su più pagine per capire da dove arriva e quale valore può avere.
Sì, tipo che ho un’età variabile tra i 20 e i 40 anni?
Si, sono conscio di questo. Essendo io la fonte diretta e avendo constatato cosa hanno scritto alcuni giornali o alcuni giornalisti, posso dire che ho visto innanzitutto come evolve una notizia. Essa viene ricevuta velocemente dai giornali locali che risultano però imprecisi, probabilmente per far arrivare prima le informazioni e per avere crediti o un nome spendibile sui giornali più grossi. Su quest’ultimi invece normalmente la vitalità della notizia dura molto poco. Nel mio caso si trattava di uno “scoop” interessante ma non grave, era una notizia curiosa; nella cultura pop la figura dell’hacker, soprattutto nell’ultimo periodo è qualcosa che vende bene. Dopo febbraio del 2018 non sono stato eccessivamente disturbato dalla stampa e dai giornalisti. La notizia va data velocemente e si rinuncia magari al dettaglio preciso, si decide comunque di metterlo per fare contesto, per fare storia.
Sì, il mondo informatico e la controcultura si sposano molto bene, ma in maniera molto attenta e scientifica. La comunità informatica è diventata molto maschile. Negli ultimi anni, almeno da quello che noto io, ed è una visione molto parziale e molto soggettiva, c’è quanto meno la presa di coscienza che nel mondo scientifico, e quindi anche in quello informatico, ci sia un numero troppo esiguo di donne, non si fa abbastanza per creare un contesto non tossico e aperto a tutti. Oggigiorno noto, però, che c’è una maggiore attenzione all’argomento, all’inclusività e ritengo questo molto positivo, oltreché rassicurante e rasserenante.
Ho studiato matematica ed ho una predilezione per l’algebra, in particolare per la teoria dei gruppi e per quella di Galois. Ho apprezzato molto le sue teorie e se potessi, continuerei ancora ad approfondire quel campo. In realtà mi sto spostando sulla materia di studio, sempre relativa alla matematica. Quando mi sono registrato su Twitter e dovevo scegliere uno pseudonimo, ho optato per Evariste Galois perché in quel periodo avevo appena finito di studiare un teorema riguardante la sua teoria ed è stato per questo che ho scelto lui come pseudonimo. Lo reputo un personaggio “particolare”, vita breve ma intensa. Probabilmente se avesse avuto una vita più lunga non avrei più finito di laureami, visto quello che ha prodotto in soli 21 anni.
Non so se sarebbe stato un bravo docente. Indubbiamente le sue teorie sono interessanti, anche adesso, e sono ancora aperte.
Spesso si fa la distinzione tra White hat e Black hat come se fosse bianco o nero. Secondo me c’è un insieme di sfumature di grigio che vale la pena di analizzare sempre, caso per caso. Si cerca di far capire che il movente e l’intento sono una parte fondamentale che porta poi ad una determinata azione, quindi se a livello legislativo in Italia, per ora, per quanto riguarda le leggi, non tanto sulle frodi informatiche ma sull’accesso abusivo, il movente non contempla il fatto di “salvare il mondo”, facendo un accesso abusivo avresti comunque commesso un reato e tale verrebbe configurato. Perché anche se il tuo movente era più che giusto, la legge non lo contempla. Ci sono invece leggi in cui la motivazione che ti spinge a fare una determinata azione può avere un impatto a livello legislativo sulla scelta del giudice perché contemplato dal codice. Quale sia il confine tra legalità e illegalità a livello informatico è una domanda complessa principalmente perché Internet abbatte le barriere. Quindi non puoi sapere esattamente dove potrebbe diventare illegale. Cioè, in che Stato potrebbe diventare illegale qualcosa? È un po’ complicato capirlo, a volte non si sa neanche dove è situato un determinato server, di conseguenza non puoi sapere se stai commettendo un’illegalità o meno. Premesso sempre che legalità e illegalità non corrispondano ad etica e morale. Per quanto riguarda il capire dove fermarsi, invece, risulta essere una scelta personale, dipende dal perché si sta facendo qualcosa. Ancora adesso ci sono gruppi di hacker che svolgono azioni per attivismo, consapevoli di commettere un’illegalità. Persone consce di quello che stanno facendo e che consapevolmente infrangono la legge, sono, ad esempio i casi di Cappato, di Rackete, la capitana che ha portato la barca in Italia sapendo che c’era comunque una legge contro e controversa. Non sempre è facile essere consci esattamente di quello che si sta facendo. Quindi il mio consiglio è che se si sta provando a fare qualcosa, è meglio sapere cosa rientra nell’accesso abusivo. Per quanto riguarda invece come si distingue un white hat da un black hat, ripeto, preferisco le sfumature di grigio. C’è chi dà una definizione puramente commerciale. Il punto è che se uno non ti danneggia l’Infrastruttura e ti avvisa che c’è una problematica, magari ha infranto la legge a livello tecnico ma non personalmente ha commesso nulla di grave. Un giudice potrebbe, guardando la legge italiana, dire che è stata infranta questa legge, ma se tu venditore/produttore, noti che non c’è nessun danno, nessun leak, nessuna perdita di dati e il suggerimento che ti è stato dato era corretto, pensi che ti sia solo stato fatto notare che c’era un problema ed inoltre che ti sta consigliando di risolverlo. Se invece qualcuno scarica il tuo database, te lo piazza online pubblicamente accessibile e lo mette in vendita, valuti diversamente il giudizio. Poi c’è un’infinità di sfumature di grigio perché più si entra in ambito dell’attivismo e più diventa complicato capire se è corretto. Basta pensare al caso di Assange, ricco di sfumature. Classificarlo solo come bianco o come nero penso che tolga molti punti e spunti di riflessione alla storia e al lavoro di questo personaggio.
La questione dei diritti digitali è aperta perché non sono ancora realmente riconosciuti. Le varie democrazie del mondo occidentale attuale si stanno interrogando su come amministrare internet, su come regolamentarlo e, a volte, su come limitarlo. Spesso si guarda solo al proprio scopo, c’è una determinata minaccia e mi interrogo su come risolverla. La soluzione più semplice: chiudo Internet. Ma, in realtà, non funziona perché internet non è una struttura strettamente nazionale, anche se potrebbe diventarlo. Considerando Internet come una rete globale, la questione dei diritti digitali mondiale è come l’essere umano con la carta dei diritti umani. Sappiamo benissimo che ci sono paesi che rispettano i diritti dell’uomo ed altri no. La stessa cosa me l’aspetto con i diritti digitali, solo che questo risulterà più difficile. L’esempio classico è l’anonimato. Nelle dittature è visto come una minaccia perché permette ad un dissidente di dire quello che vuole. Nelle democrazie Occidentali, invece, il problema non si era posto fino all’avvento dei social network. Con essi abbiamo due effetti: il primo è che tutti ci iscriviamo con nome e cognome, però è un errore, Internet è nato con gli pseudonimi e non c’è alcun obbligo di registrarsi con il nostro nominativo reale. La comodità di mettere nome e cognome può essere utile però, per determinati settori (es. voglio aprire una pagina Facebook per la mia attività). In questo caso c’è un fine ben chiaro mentre, se voglio, fare satira, mettere nome e cognome potrebbe essere estremamente limitante. Poi c’è il fatto che Internet è recente. Le applicazioni ed i social network sono novità che coinvolgono tutta la popolazione, ma nessuno ha mai spiegato come funzionano questi strumenti. Talvolta essi erano addirittura privi di legislazione o regolamento. Chi tenta di affrontare le problematiche legate ai servizi web spesso si focalizza a risolvere problematiche che coinvolgono e interessano solo il suo punto di vista, dimenticandosi che l’approccio che sta utilizzando potrebbe danneggiare un’altra parte della comunità online.
Una carta che si appoggi strettamente ai diritti umani e che venga allargata ai diritti digitali. Che i diritti digitali entrino a far parte della carta dei diritti umani sarebbe una potenziale soluzione. Penso che, il far concordare gran parte dei paesi del mondo sia complicato. Anche se questa sarebbe l’idea migliore. Altra soluzione sarebbe quella che i Paesi dell’Unione Europea e occidentali, nei quali ci sono democrazie più forti storicamente, non prendano decisioni frettolose o errate, perché poi è difficile tornare indietro.
Penso che i giornali abbiano un ruolo importante in questo e lo dico principalmente da lettore. Il mondo dell’editoria dovrebbe trovare un modo nuovo di affrontare questo mercato, che negli ultimi anni non li ha premiati, guardando le vendite e le statistiche. Non siamo più obbligati a leggere la notizia sul giornale, perché magari c’è un account attendibile su Facebook che ci fornisce informazioni in tempo reale. Anche per questo il mondo dell’editoria e dei giornali si trova in crisi e c’è una minor cura nei contenuti. Penso che il buon giornalismo possa essere una cura per le fake news ma è difficile uscire dal vortice della “non credibilità”. Minore è la credibilità verso i giornali, meno lettori essi avranno e questo graverà sulle entrate economiche per la produzione di contenuti di qualità. Talvolta è sufficiente che un giornale decida di fare un titolo “acchiappa click” per ottenere visibilità. L’approccio che molti hanno sui social network è quello di condividere senza nemmeno leggere la notizia creando così un circolo di disinformazione. Inoltre siamo abituati a leggere solo ciò che, alla fin fine, ci dà ragione. Quindi è sempre complicato capire chi fa disinformazione, ci vorrebbe maggiore etica da parte di editori e giornalisti e, da parte degli utenti, meno condivisioni e più lettura. Fortunatamente questo è un trend che, secondo le prime statistiche, non riguarda la “generazione z”.
Lo rifarei, magari con modalità differenti. Se mi accorgo che un sito su cui navigo non è sicuro o che un’applicazione che utilizzo ha delle problematiche, ancora adesso scrivo agli sviluppatori. Venendo da una filosofia dell’open source, in cui si tende a pubblicare il codice, esso viene commentato o migliorato dagli utenti, o comunque da chi ne ha competenza. Con gli sviluppatori e il team di Rousseau ho segnalato una problematica da risolvere. Da questa esperienza ho tratto un sacco di riflessioni. La prima è che vivere la stampa e la tensione mediatica è assai pesante, la seconda è che si confonde legalità con etica e morale. La comunità informatica italiana è ben formata, infatti la maggior parte dei problemi si hanno con coloro che sono fuori dal settore. Essi andrebbero istruiti adeguatamente da coloro che possiedono maggiori conoscenze.
È un’esperienza utente la mia, non un’esperienza designer. Sono solo l’utente finale io, siete voi gli esperti, mi posso solo lamentare quando non funziona il tasto o il bottone.
Penso alla cultura degli anni ’60 alle comunità hippie piuttosto che naife. Adesso nel 2019 le vediamo in tutt’altro modo, se ne estrapolano i contenuti migliori, molta della narrativa è diventata pop e quindi la si vive sotto un’altra lente. Se dovessi scegliere un evento in particolare, penserei al primo approccio che ho avuto con il temine hacker, da un film intitolato “Hackers”, del 1995, con Angelina Jolie.
Oggi, su Twitter, c’è un acceso dibattito sull’anonimato online. La proposta è quella di allegare un documento d’identità ai profili social network. Quando vi dicono di associare un documento d’identità al profilo social network stanno dicendo una pessima cosa. Quindi evitiamo di portare avanti questa idea per combattere l’odio online, perché non risolverà un bel niente. Appunto perché molti su Facebook hanno nomi e cognomi.
Non penso che la controcultura sia morta, essa muta ed evolve. Tra l’altro, forse bisogna parlare di controculture, al plurale. Ultimamente vengono accusati i social network, specialmente Facebook, io stesso ne ho criticato ampiamente alcune scelte.