Uccidere l'arte per resuscitarla
a cura di Giorgia Antonini e Giulia Ferlito

Lo dice la parola stessa: qualcosa in grado di contrastare la cultura ufficiale, la cultura conformista e uniformata che la società (una precisa forma di società) intende imporre ai propri appartenenti. È soprattutto un modo di stare insieme, di pensare e immaginare un mondo differente. La controcultura è una forma di creatività svincolata dalla competitività, dalla produttività, dalle regole del mercato. Anche se è impossibile definire esattamente cosa sia controculturale. È un termine che useremo qui di seguito per convenzione e comodità.
Anche oggi deve tendere a queste stesse cose, a realizzare una comunità in grado di contrastare la situazione generale di adeguamento e sottomissione alle leggi che sovrintendono alla libertà di pensiero e di espressione. La creatività è una prerogativa umana e non può essere lasciata esclusivamente nelle mani di professionisti selezionati attraverso le griglie del valore monetario, del prezzo. Il valore è tutta un’altra cosa e dipende dall’intensità, dalla capacità di comunicare e diventare linguaggio.
Ci sono le spoglie cartacee (e queste sono affidate alle biblioteche e ai musei che se ne interessano) e poi ci sono quelle (assai più interessanti) immateriali della memoria, del passaggio di testimone. Sono tracce a volte labili, invisibili, che sprofondano e riemergono come fiumi carsici. Sonnecchiano e poi si riaccendono. Sono braci che covano sotto la cenere. Siete voi, voi che mi fate queste domande, a rappresentare in carne ed ossa le possibili tracce. Se ne avvertite la vitalità allora vuol dire che qualcosa è stato fatto di positivo e che qualcosa è restato. Per venire riutilizzato, oltre che studiato.
Perché ancora oggi continuo a contrastare, per quanto mi è possibile, un sistema artistico che è schiavo del mercato, che vede nel mercato la sua meta e la sua legittimazione. Continuo a combattere contro, contro gli adoratori del Corpus Christie’s e del Corpus Sotheby’s. Penso che sia necessario emanciparsi da una visione tanto ristretta quanto paralizzante. L’arte non è un fine ma un mezzo per esprimere un punto di vista, uno strumento di intervento, qualcosa da scagliare contro. Contro chi intende devitalizzarla e trasformarla in un feticcio.
Non credo che la controcultura sia diventata di massa. Forse alcune manifestazioni superficiali e pittoresche sono passate nella moda, nella comunicazione, nell’immaginario. Ma per parlare di controcultura reale bisogna riferirsi a pratiche alternative del fare e del pensare, bisogna imboccare strade poco battute, sentieri spesso solitari, fare scelte esistenziali e comportamentali in cui è indispensabile schierarsi, pagandone anche un prezzo. Restare alterità senza farsi fagocitare o irreggimentare. Per esempio negarsi, se serve farlo. In un sistema dell’arte trasformato in industria (del consenso quanto del dissenso) anche solo astenersi, contenersi, non assecondare la smania di iperproduzione e di consumo può essere un buon inizio cosa sia controculturale. È un termine che useremo qui di seguito per convenzione e comodità.
La collettività, la comunità, la ricostruzione di un’identità priva di schemi e gabbie concettuali. Gli amici con cui si sono condivise le speranze di cambiamento. L’ipotesi che si fa concreta, immaginare insieme scenari inediti e sfuggenti ai canoni presenti in quel dato momento.
Questo non sta a me dirlo, ogni percorso esistenziale deve essere analizzato tanto da chi lo ha vissuto in prima persona quanto da chi lo osserva e lo conosce solo dall’esterno, a cose fatte. Ambedue le posizioni concorrono a formare una valutazione complessiva. Non c’è una visione univoca. Certamente però l’esperienza di “Lotta continua” e degli Indiani metropolitani (1977-1978) rappresentano per me un momento importante, tanto per il rifiuto del ruolo dell’artista quanto per la possibilità di inventare una nuova prassi politica. Uccidere l’arte per resuscitarla nella vita quotidiana fu una bella esperienza.
Come Marcel Duchamp ha messo i baffi alla Gioconda a noi spetta mettere i baffi al George Washington inciso sul dollaro. Purtroppo l’euro non ha più neanche un ritratto umano da sbeffeggiare, solo monumenti. Potremmo però segnare quei monumenti con dei murales. Street Art vs Wall Street Art. In definitiva il muro di Berlino, giusto trent’anni fa, è caduto sotto le picconate ma anche schiacciato dal colore dei graffiti di cui era ricoperto.
La controcultura non è una categoria astratta né una scuola di pensiero e nemmeno qualcosa a cui aderire. Ci si finisce dentro come si finisce dentro un buco cosmico che mette in comunicazione due mondi differenti. Mi ha comunque fornito delle lenti con cui osservare e analizzare la realtà senza farmi ingannare dalle apparenze e dalle appartenenze.
Non perdere mai l’entusiasmo degli esordi quando tutto sembra possibile e raggiungibile (tutto è possibile e raggiungibile se si mantiene fede a se stessi). Non lasciarsi comprare dal migliore offerente. Essere diffidenti verso i committenti. Non barattare l’utopia con il meno peggio.
Ogni manifestazione “controculturale” ha una sua ragion d’essere, un suo senso profondo, una sua grandezza, non esiste una hit parade né un podio su cui piazzare i primi tre. Nel piccolo, nel marginale, nel sotterraneo, si nascondono germi diversissimi tra di loro. Sta a chi se ne vuole servire scegliere il più infettivo.
Certamente la personalizzazione, l’incapacità di mantenere viva la collettività, il denaro (inteso anche come moneta di scambio dell’ambizione). Bisogna riscoprire un’economia del dono e ritrovare il piacere della gratuità, la gioia del fare senza aspettarsi nulla in cambio.