La prima risposta istintiva è: non lo so.
a cura di Giorgia Antonini e Naomi Sabato

Posso interpretare la domanda in due modi: come la richiesta di un racconto personale o di una valutazione su ciò che è stata storicamente la controcultura. Proverò brevemente a fare entrambe le cose. Per me, come per molti altri della mia generazione, il primo incontro con manifestazioni controculturali è passato dalla musica. Ascoltare e, in qualche caso, frequentare da vicino chi fa musica “dal basso”, in particolare la scena post – punk di inizio anni ottanta, equivaleva a posizionarmi – anche se solo da fruitore – in una posizione orgogliosamente marginale dalla quale guardare il mondo, con tutta l’arroganza e l’ingenuità intellettuale degli anni dell’adolescenza. Come fenomeno storico la controcultura per me nasce solo in parte dal desiderio di opporsi ad una cultura dominante. Ancora di più si caratterizza, all’origine, per la volontà di trovare o costruirsi mezzi di produzione e diffusione della cultura completamente diversi da quelli che usa chi è comodamente al centro del sistema dei media o delle istituzioni che producono tradizionalmente cultura o informazione. In realtà, fin dagli inizi, non è esistita controcultura senza dialettica con l’industria culturale, e non solo per il costante rischio di assimilazione delle esperienze più sperimentali nel mainstream.
La prima risposta istintiva è: non lo so. Oggi secondo molti l’idea di una cultura autenticamente “altra” è sparita, non perché non ci siano più spazi di espressione disponibili, ma esattamente per la ragione opposta (almeno se parliamo della parte ricca del mondo). Per qualsiasi outsider confezionare un prodotto culturale dalle qualità professionali e distribuirlo è diventato relativamente facile, mentre la stessa industria della cultura assume spesso configurazioni frammentarie, flessibili, leggere. Secondo questa visione, posizionarsi ai margini della cultura dominante è molto più difficile perché è meno facile capire dov’è il centro. C’è molto di vero in questo (o almeno c’è stato molto di vero), a partire dall’introduzione delle tecnologie e dai media digitali. Tuttavia, mai come in questo momento – in cui la stessa tecnologia digitale mostra sempre più i suoi lati meno aperti e democratici – c’è una urgente bisogno di contronarrazioni, forse meno riferito ai linguaggi ma più ai contenuti. Non credo sia morta la necessità di diffondere contenuti che sarebbero rifiutati nei contesti in cui si sviluppa la narrazione “dominante”. Il problema vero mi pare adesso fare arrivare questi contenuti al di fuori della cerchia dei nostri “amici”, quelli che già la pensano come noi.
Non mancano archivi e collezioni molto interessanti. Ne cito due che ho avuto l’occasione di consultare di persona, ma ce ne sarebbero molti altri:
– Il fondo Prandi, donato da Alberto Prandi alla biblioteca Marciana di Venezia: 500 fra volumi, opuscoli, periodici e volantini pubblicati tra gli anni 1964 – 1975 da soggetti vicini ai movimenti e ai partiti della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria italiana.
– l’Archivio Primo Moroni, presso la libreria Calusca a Milano, un luogo dove immergersi letteralmente nella produzione controculturale.
– Il grande archivio della rete, credo sia pieno di testimonianze e materiali condivisi dagli utenti anche relativi a questo campo.
Immagino che gli anni siano quelli della contestazione giovanile, dell’emergere di culture underground e persino di una sorta di controdesign in Italia (design e architettura radicale): gli anni sessanta e settanta insomma. In quel periodo i linguaggi erano piuttosto diversi a seconda del tipo di fenomeno di cui parliamo: le sottoculture che, mentre aderivano in modo entusiastico alla civiltà dei consumi, contribuirono anche a trasformarla drasticamente, avevano un modo di esprimersi che poi è stato definito in vari modi, ma che possiamo ragionevolmente far rientrare dentro il fenomeno pop. Sicuramente qui i linguaggi più che essere corrosivi e di opposizione, puntavano a soddisfare un forte bisogno identitario. I più giovani (una categoria demografica che emerge con prepotenza proprio allora) si appropriano della cultura dei consumi riconfigurandola, cercando al suo interno spazi di espressione. Al contrario, forme di controcultura più consapevoli, politicizzate e ideologiche, rivendicano esplicitamente il rifiuto del consumismo e mettono in discussione l’assetto economico della società occidentale, adottando linguaggi che intenzionalmente si distinguono dalla grafica professionale, da tutto ciò che è patinato ma anche eccessivamente strutturato (il modernismo “svizzero” e l’international typographic style, ad esempio). Di qui, il ritorno alla manualità grezza, all’illustrazione, al segno sporco, l’eclettismo stilistico, ma anche la ricerca deliberata di illeggibilità o quantomeno il rifiuto di una comunicazione diretta e ingannevolmente trasparente (dietro la quale, ai loro occhi, si nasconde la propaganda del potere), per usare immagini e scritture che richiedono uno sforzo critico di decodificazione da parte del lettore. Non c’è un confine netto fra questi due modi, ma è una distinzione da tenere presente.
Difficile dire cosa sia interessante segnalare in questo mondo vastissimo e variegato. Per quanto riguarda il design, trovo estremamente contemporaneo tutto ciò che ha fatto negli anni settanta un progettista come Ugo La Pietra (che ha sempre preferito definirsi operatore culturale). Nella grafica due figure come Gianni Sassi e Magdalo Mussio. Per il resto, inviterei a non fermarsi agli anni ’60 e ‘70, e non solo alle forme tradizionalmente più politicizzate ma anche, ad esempio, ai movimenti di liberazione sessuale e di genere (i cui linguaggi, spesso molto innovativi, di solito non entrano nelle storie del design). Guarderei non solo al maggio parigino o alla cultura hippie, ma anche al mondo delle fanzine legato al Punk, fino alla musica elettronica e alla cultura dei rave party. Ci sono poi le sperimentazioni più artistico – letterarie, l’esoeditoria. La storia del design grafico ha tutto da guadagnare dall’inclusione nel suo racconto di una serie di fenomeni che non hanno a che fare con la professione intesa tradizionalmente. Qualunque proposta è benvenuta. Per non eludere del tutto la domanda, direi che se si vuole capire la dinamica che si sviluppa a un certo punto fra mainstream e underground, fra modernismo e grafica di opposizione, è utilissimo andare a guardare due documenti:
1. Il numero dell’Almanacco Bompiani dedicato all’”Altra grafica”, pubblicato nel 1973, con contributi, fra gli altri, di Umberto Eco, Ugo Volli, Franco Quadri e Daniela Palazzoli
2. Il dibattito tutto olandese fra Wim Crouwel e Jan Van Toorn, nel 1972 (oggi disponibile in inglese in The Debate. The legendary contest of two giants of Graphic Design, The Monacelli Press, 2015).
Rispondo con una citazione di Umberto Eco (in un altro almanacco letterario Bompiani del 1971, dedicato alle culture giovanili): “Molti giovani che se fossero vissuti trent’anni fa avrebbero scritto poesie, ora fanno fumetti astratti, e quindi disegnano con poche parole. Invece quelli che trent’anni fa avrebbero dipinto, ora scrivono manifesti”. L’invito, così forte in quegli anni, a considerare la grafica come un linguaggio alla portata di tutti per esprimere il proprio punto di vista e non solo come una professione che consiste nel veicolare i messaggi dei propri clienti. Ecco cosa forse salverei. Nel mestiere del designer c’è una forte componente intellettuale. A volte si può usare il design per esprimere le proprie idee e proporre una visione alternativa del mondo. E lo si può fare da designer, dunque sapendo ben maneggiare i mezzi di produzione e comunicazione. Rinunciare ad avere una voce, oltre che poco auspicabile politicamente, credo sia poco divertente.
Forse ho risposto un po’ prima. Ma in genere non mi piace dare consigli ai giovani. Nel mio piccolo, provo a mettere a disposizione strumenti di valutazione critica, che ognuno utilizza come crede. Direi che in linea con i gruppi controculturali e underground, accanto all’autoproduzione e all’autogestione, potremmo inserire, forme di auto – consulenza.
Mi verrebbe da dire il sistema della moda. Non c’è niente di scientifico in quello che sto per dire (e chiedo perdono ai molti amici esperti di moda), ma io ho l’impressione che oggi la moda sia uno dei territori di sperimentazione più fertili, dove si macinano e rimacinano culture alternative, e allo stesso tempo uno dei maggiori responsabili dell’abolizione di ogni linea di distinzione fra cultura e controcultura. La ricerca di alterità e indipendenza è funzionale alla logica di un sistema come quello della moda, che saccheggia (o accoglie, include, alimenta? Dipende dai punti di vista) qualsiasi cosa venga dalla strada ormai da tempo. Quando da ragazzo andavo al mercato di Resina (vicino Napoli) a comprare cappotti e scarpe usate, mi illudevo ingenuamente di fare qualcosa del tutto al di fuori dal sistema dei consumi (e di certo già non era vero). Oggi le tribù più radicali della moda (che recuperano tutto il recuperabile dal passato) neanche si pongono il problema: vanno in giro conciati in un modo che può ancora spaventare qualche vecchietta forse, ma il loro look è frutto di uno studio maniacale, quasi filologico, di tutto ciò che producono e hanno prodotto storicamente i brand: da quelli più popolari a quelli più di nicchia. Non credo che ci sia qualcosa di negativo in questo. È molto interessante anzi. Forse anche da qui – dalla moda e da tutto quello che si muove intorno a essa – possono passare le famose contro – narrazioni? Non lo escludo affatto ma non ne sarei neanche così certo.